
“E se mi lasciasse?” — Quando la paura non è solo nella mente
Ti è mai capitato di sentire un vuoto allo stomaco, una tensione improvvisa o quel bisogno di conferme che sembra non bastare mai, anche quando tutto va bene?
Spesso ci diciamo che “è solo ansia” o “insicurezza”, ma dietro quella sensazione può esserci qualcosa di più profondo: la ferita dell’abbandono.
Questa ferita nasce nelle prime esperienze di vita, quando avevamo bisogno di sentirci visti, accolti, protetti — e, per qualche motivo, non lo siamo stati abbastanza.
Non serve un grande trauma per crearla. A volte è bastato sentirsi soli in presenza di chi amavamo o non essere compresi nel momento in cui più ne avevamo bisogno.
È una mancanza sottile, ma che lascia tracce profonde.
Il corpo come archivio emotivo
Il corpo è la nostra memoria più fedele. Custodisce tutto ciò che la mente, per proteggerci, ha cercato di dimenticare.
Quando la ferita dell’abbandono si riattiva, non lo fa solo nei pensieri (“Temo che mi lasci”, “Non valgo abbastanza”), ma attraverso reazioni fisiche di allerta o chiusura.
È il linguaggio del sistema nervoso che prova a difenderci da un dolore già conosciuto.
La teoria polivagale (Stephen Porges, 2011) spiega bene questo meccanismo: di fronte a un segnale percepito come distacco o rifiuto, il corpo può reagire in due modi opposti:
- iperattivarsi, con muscoli tesi, battito veloce, respiro corto — è la modalità “lotta o fuga”, che cerca di trattenere o evitare la perdita;
- spegnersi, in una forma di “congelamento”: ci sentiamo stanchi, vuoti, distaccati. È il corpo che prova a risparmiare energia per sopravvivere emotivamente.
Queste risposte non sono sbagliate. Sono antiche strategie di sopravvivenza.
Il corpo impara presto che essere lasciati soli fa male — e anche da adulti può reagire come allora, anche quando la mente sa che non siamo più in pericolo.
Come riconoscerla nel quotidiano
La ferita dell’abbandono non si manifesta sempre con lacrime o crisi evidenti.
A volte vive nei piccoli gesti di ogni giorno:
- nell’agitazione quando l’altra persona non risponde subito;
- nel bisogno di piacere sempre, per non rischiare di essere rifiutati;
- nel silenzio che scegli invece del conflitto, pur di non perdere qualcuno;
- in quella voce interiore che ti dice di essere “troppo” o “non abbastanza”.
Sono schemi nati per proteggerci, non per sabotarci e oggi, come adulti, possiamo iniziare a riconoscerli e a non identificarci più con loro.
Un esercizio pratico di “sopravvivenza” corporea
Quando senti il corpo chiudersi o l’ansia salire senza motivo, prova questo piccolo esercizio. È un modo semplice per dire al tuo sistema nervoso che ora sei al sicuro.
- Appoggia una mano sulle clavicole, sul petto, sull’addome o dove senti tensione.
- Inspira lentamente dal naso contando mentalmente fino a 4.
- Trattieni l’aria contando mentalmente fino a 2
- Espira lentamente contando fino a 6.
- Senti il contatto delle mani sul tuo corpo, il calore che riescono a trasmettere e ripeti mentalmente: “Sono qui, resto con me.”
- Nota se cambia qualcosa nel respiro, nel petto o nelle spalle.
Questo gesto, ripetuto con costanza, aiuta il corpo a riprogrammare la memoria biologica di sopravvivenza, calmando il sistema vagale e ristabilendo sicurezza interna.
Non è controllo, ma cura. È come insegnare al corpo una nuova lingua: quella della presenza e della fiducia.
Dal corpo alla consapevolezza
Parlare di ferita d’abbandono non significa accusare o restare intrappolati nel passato.
Significa dare un nome a ciò che sentiamo, per restituire dignità alle nostre emozioni.
Ogni volta che ascolti un segnale del corpo invece di zittirlo, crei spazio per la guarigione. Perché il corpo non dimentica, ma può imparare a raccontare la stessa storia in modo diverso: non più a partire dal dolore, ma dalla consapevolezza.
Conclusione – Dalla paura alla presenza
Prendersi cura della ferita dell’abbandono non significa smettere di avere paura di restare soli, ma imparare a restare presenti con quella paura, senza lasciarle il controllo.
Ogni volta che riesci a restare nel corpo — a respirare dentro quel vuoto invece di allontanartene — stai già cambiando la tua memoria biologica.
Non è un percorso lineare: richiede tempo, dolcezza e un ascolto profondo, ma con ogni piccolo gesto di presenza puoi ricostruire dentro di te la fiducia che un tempo ti è mancata.
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